La debolezza dei forti

Uomini contro le donne.

Uomini e donne contro i bambini.

Bambini contro un solo bambino.

Uomini, donne e bambini contro gli animali.

C’è una violenza che dorme in ognuno di noi e talvolta si risveglia per fare capolino, lieve e quasi in punta di piedi.

Non intendo parlare della violenza che fa notizia col botto, quella che arriva a nuocere gravemente, fino a uccidere e che si chiama femminicidio, bullismo, infanticidio, tortura; no, intendo quella quotidiana che sonnecchia anche nel più mite di noi.

È il pugno sul tavolo, l’offesa gratuita; è la parola che non vorremmo uscisse, lo schiaffo che non doveva partire.

Puntualizzazione doverosa: GLI SCHIAFFI NON DEVONO MAI PARTIRE E TANTOMENO ARRIVARE!

È una patetica dimostrazione di potere che ogni tanto sentiamo il bisogno di tirare fuori con l’illusione di apparire forti. Si genera in stati di particolare nervosismo, stress, difficoltà oggettive o presunte, spesso comunque ingigantite, oppure semplicemente quando abbiamo “bisogno di sfogarci”. Ci si giustifica così, vero?

Su chi però esercitiamo la presunta legittimità di questo sfogo, questa rivendicazione di potere?

È un po’ come se decidessimo di uscire e fare a pugni. Si aprono tre possibili scenari:

  • Mandare un messaggino a Jason Mamoa del tipo: “ehi brutto stronzo, hai messo su pancia! Vieni a prendermi, sono qua!”;
  • soppesare l’avversario e sceglierlo di pari forza, peso e pure livello di incazzatura;
  • rompere le palle a chi, per condizione di debolezza intrinseca o estrinseca, non è in condizione di reagire.
  • Nella prima ipotesi si tratta di evidente masochismo (fatevi curare prima di mettere in atto il proposito perché dopo sarà troppo tardi);
  • nella seconda di una ridicola e anacronistica sfida, peraltro improbabile, che verosimilmente finirà brindando con un caffè alla macchinetta del pronto soccorso;
  • per quanto riguarda la terza, non c’è scampo, è vigliaccheria allo stato puro.

Ci sono vari modi di “prendere a pugni un uomo solo perché è stato un po’ scortese”, come cantava Battisti, e quella di uscire per strada a farlo resta canzone o metafora.

I luoghi in cui ciò avviene sono invece quelli più intimi, dove può restare acquattata senza fare rumore né scalpore: casa nostra, scuola, ufficio o luogo di lavoro;

l’arma è apparentemente innocua: parole, gesti, espressioni;

la vittima è quella perfetta perché impossibilitata a reagire: bambini, il partner, il sottoposto.

Lo scopo?

Trarre soddisfazione dalla nostra dimostrazione di forza, superiorità, autorità.

Far piangere il bambino, soffrire il partner, umiliare il dipendente o l’allievo, provocano attimi di godimento puro destinato però a dissolversi nel nulla della più desolante insoddisfazione.

Un modo di sentirsi fighi in quell’attimo in cui ci si sente una nullità; il godimento effimero che nasce dal sottile piacere del vedere qualcuno che piange o soffre a causa nostra.

Ci sono però due fattori di cui non tieni conto:

il primo è che tu non sei affatto una nullità. Puoi cedere a crederlo, per stress, problemi, insoddisfazione, ma non lo sei, fidati! Nessuno lo è. Se però ti ostini a volerlo dimostrare a te stesso prendendotela con chi ti sta vicino, sei un po’ stronzo, questo sì. Resta il fatto che neppure lo stronzo è una nullità. Lavora su te stesso, fatti un “mea culpa”, prenditi a pugni la coscienza, fai piangere lo stronzo che alberga in te e dopo vedrai che ti sentirai meglio senza necessariamente dover rompere le palle agli incolpevoli che hanno la ventura, o la sventura, di dividere la vita con te;

il secondo mistero che intendo svelarti è che la tua vittima prescelta non è debole, o comunque non più di te. Non reagisce perché non può farlo, o perché ti vuole bene (nel caso del partner, di un figlio, di un genitore), o perché a casa ha bocche da sfamare (un dipendente o sottoposto), oppure semplicemente è infinitamente più forte di te e in grado di esercitare il controllo delle proprie reazioni.

E allora?

C’è un’unica strada per essere forti e dimostrarlo agli altri ma soprattutto a se stessi: l’esercizio della calma, della pazienza, il saper contare fino a trenta, o mille se necessario, prima di far partire i polsini, il sedersi sulla riva del fiume in piena dei nostri problemi e attendere che il corso riprenda il suo normale ritmo rassicurante e fluido, e non è detto che a quel punto non si veda pure passare il tanto atteso cadavere del nemico.

Del resto rifletti:

battere il pugno sul tavolo sortirà solo l’effetto di procurarti una fastidiosa microfrattura;

far piangere un bambino quello di farti rodere il fegato;

ferire il partner ti farà correre il rischio di perderlo;

colpire il dipendente avrà come conseguenza l’essere odiato.

Vantaggi zero e pure l’onta di fare una gran figura di merda!

Non dire mai: “e che sarà mai! È solo una parola, è solo un piccolo schiaffo. Io ne ho presi tanti eppure sono sopravvissuto”.

Ricorda piuttosto quanto ti hanno bruciato quelle parole e quegli schiaffi, veri o virtuali, e considera se veramente sono serviti a qualcosa. Bene, se in effetti sono serviti è solo per insegnarti che fanno male e quindi, no, non si fa. Mai! Altrimenti significa solo che violenza genera violenza, e pertanto è un fallimento che porta in sé il rischio di generare una spirale da cui diventa poi troppo difficile uscire.

Shankaracharya, un capo induista, dice: “Siediti sul bordo del mare e prendi una goccia d’acqua con un filo d’erba. Se avrai pazienza sufficiente e se troverai, vicino a te, un posto dove mettere l’acqua, col tempo riuscirai a svuotare l’oceano di tutto il suo contenuto”.

Buon vento, e comunque, se proprio devi prendertela con qualcuno, sceglietelo grosso!

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online

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