Scusi, lei chi è? Affrontare la demenza senile

“Mi scusi, … lei chi è?”

Non è una domanda ma una pugnalata che trapassa il petto, un pugno in faccia, la terra che sprofonda sotto i piedi.

“Ma come chi sono? Tuo figlio!”

Quegli occhi velati di azzurro ghiaccio roteano smarriti senza vedere, il corpo s’irrigidisce, sospettoso, sulle difensive, respinge il contatto con la poca forza che ancora possiede. Il capo accenna un ripetuto “no”, e poi tra di voi, il vuoto.

Non te lo aspettavi vero? O meglio, sì, lo temevi ma non sapevi che effetto avrebbe fatto.

Te lo avevano detto i medici che sarebbe giunto questo stramaledetto giorno, quello in cui ti avrebbe guardato come si guarda un estraneo, e poi l’avevi sentito raccontare da altri che già ‘ci erano passati’. Ma a te no, non poteva succedere! Non a tua madre, non a tuo padre, non a voi. Come può scalfirsi un legame così profondo, perfetto? Già è incomprensibile come possa un genitore dimenticare un figlio, come riesca, una madre, che l’ha portato dentro; assolutamente impossibile per tua madre, per tuo padre. E invece non è così:

“Chi è lei?”, continua quella cosa che sembra vegetare sulla sedia a rotelle.

Glielo hai detto neanche trenta secondi fa. Non ti crede? Cosa è cambiato in te perché non ti riconosca? Da dove nasce tutta questa diffidenza? Perché ce l’ha con te?

È una ferita che lacera l’orgoglio, la dignità, molto simile a un’offesa.

E che diamine! Mi prodigo fino a rinunciare a me stesso, trascuro il lavoro, la famiglia, dimentico anche il più piccolo svago, metto pure mano al portafogli e quella “cosa” che fa? Dubita di me, non si fida, mi disconosce.

“Tuo figlio. Capisci? Carne della tua carne, sangue del tuo sangue”

Persino l’amore vacilla in quel preciso istante, la compassione si trasforma in rabbia: a che giova se neppure ricorda chi sei, se cancella con un colpo di spugna tutta una vita, la vita stessa che ti ha donato?

Ma veniamo a te.

Cosa hai provato quando hai sentito pronunciare la parola “Demenza”?

Smarrimento, dolore; è una dura sentenza da ascoltare e un termine difficile da digerire. Dolore ma anche un pizzico di imbarazzo. Non vergognartene, perché è una reazione comunissima e per certi versi comprensibile.

Purtroppo associamo la parola all’insulto: demente = stupido, scemo, cretino, sciocco. In quest’accezione siamo abituati a usarla e quindi è normale, pur avendo coscienza e conoscenza di cosa essa sia in realtà, avere un’inconscia difficoltà a recepirla in modo corretto.

Cosa ci dice il nostro prezioso vocabolario etimologico a riguardo?

Demente = dal latino “de” + “mentis”, ovvero “fuori dalla mente”. Sì, tutto qui. Nulla a che vedere con la stupidità; intelligenza e demenza non sono affatto incompatibili.

È un vagare al di fuori, oltre quei limiti consueti che racchiudono ricordi, lasciandoli indietro, accatastandoli alla rinfusa, mescolandoli fino a non riconoscerli più.

Per noi, per i quali quei limiti sono insormontabili, il ricordo funge da motore non solo di ciò che oggi siamo ma anche di ciò che saremo e vorremmo essere, e tendiamo a pensare che senza di essi l’intero meccanismo si fermi: niente ricordi = niente vita.

Viviamo non una bensì tre dimensioni: il presente, il passato e, attraverso la proiezione delle idee, il futuro.

Questa è una condizione tipica dell’essere umano e universalmente condivisa, ma non è l’unica possibile.

Cosa succede dunque a chi esce dal circuito, “de-mentis”? Cessa di essere se stesso? No, semplicemente vive solo uno dei tre tempi, il presente.

Ti vede, ed è come ti vedesse la prima volta:

“Scusi, lei chi è?”

Se rispondi sorride, di un sorriso autentico proprio perché privo di ricordo.

Ce n’è uno che però non si nasconde, ed è il ricordo dell’infanzia, dell’adolescenza. Forse perché esse sono le fasi della vita in cui il presente prende il sopravvento sugli altri due tempi, in cui ieri non è ancora trascorso e domani privo di interesse.

Un vecchio e un bambino uniti in un solo corpo, un bambino imprigionato in una ragnatela di rughe e fragili ossa.

Il futuro non esiste; non per loro ma per te sì!

Domani non si ricorderà di nuovo di te, ancora ti chiederà “chi sei?” e per te sarà una nuova ferita accanto alle altre ancora non rimarginate.

Ora ti chiedo: hai mai fatto con il tuo partner il giochetto del primo incontro?

Fare finta di vedersi per la prima volta, da perfetti sconosciuti, estranei; guardarsi negli occhi e rinnovare così la sensazione di quell’amore che s’insinua nelle membra e prende lo stomaco. Lo chiamiamo “innamoramento” ed è assai diverso dall’amore, e per certi versi più autentico.

Ecco, ora ti tocca condurre il gioco delle presentazioni con tua madre o tuo padre, e se sei un abile giocatore, far rinascere ogni giorno la magia di quell’unione incrollabile di amore che non si accresce di valore nel cumulo degli anni ma in una semplice stretta intorno a un gracile braccio e in un bacio sulla fronte.

Ora più che mai devi essere bellissimo, bellissimo dentro, una bellissima persona, da amare per quello che è, in questo preciso istante.

Domani si ripeterà l’istante e si rinnoverà lo stupore dell’amore vero.

Stare accanto a un genitore che non ricorda più di essere tale richiede una grande forza, pazienza granitica, tutte quelle capacità genitoriali che, pur nell’oblio, ti ha trasmesso, totale assenza di egoismo e pura generosità.

Richiede spesso anche un supporto concreto, una mano a cui aggrapparsi per non vacillare, perché quel vento che da una parte porta l’oblio, dall’altra deve essere seguito nella direzione che aiuta il cammino e non in quella opposta, che fiacca le ginocchia.

E dunque, buon vento

“Qualcuno ha messo un fiore sul mio comodino”

“Chi è stato?”

“Non so. Non ricordo, ma certo era una bella persona”

 

Nel Paese della Memoria l’unico tempo è Ora.

Stephen King

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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