Prendiamoci a zoccolate

Ricordi? A scuola la maestra faceva una domanda; tu la risposta la sapevi, perché avevi studiato, eri diligente per la miseria, ma ti assaliva il dubbio … “e se fosse sbagliato?”. Così tacevi, e la mano l’alzava qualcun altro.

E poi quella ragazza che ti piaceva tanto! Eri più grande, alle medie, e sui suoi passi si spalmavano le bave cariche di ormoni di tutta la porzione maschile della scuola. Perché rischiare di essere respinto e magari deriso? Ti sei girato dall’altra parte e lei se n’è andata per mano con il tuo amico.

Oppure quel bulletto dietro a cui tutte le tue amiche morivano. A dodici – tredici anni eravate tutte più o meno con gli stessi problemi: brufoletti, cambiamenti del corpo, capelli da sistemare … . Tu ti guardavi allo specchio e non ti piacevi; come saresti potuta piacere a lui? E così, invece di fare qualcosa per risolvere il conflitto con te stessa, peggioravi il tuo aspetto, in modo da scongiurare persino l’eventualità che il bel tenebroso potesse notarti per sbaglio.

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Poi l’università. È finita l’infanzia, è svanita l’adolescenza. Obiettivi e punti fermi; traguardi e prospettive scelti. Eppure quel senso di “non posso farcela” riaffiora, si ripresenta, perché in realtà non ti ha mai abbandonato da quei giorni sui banchi delle elementari.

E in seguito arriva il lavoro, la famiglia, il ruolo sociale, tutto all’insegna di una corrosiva insicurezza.

Il fallimento: non una semplice e comprensibile paura, ma lo spauracchio di un qualche cosa che si ritiene inevitabile, all’università, sul lavoro, nella vita sentimentale.

La paura del non riuscire è normale. È fisiologica, è buona, è giusta e positiva. È la molla, lo stimolo per analizzare, agire, superare, risolvere gli eventuali ostacoli al successo. Significa avere consapevolezza non solo dei propri limiti, ma anche dell’eventualità degli accidenti esterni.

Facciamo un esempio: a un colloquio di lavoro non può dipendere tutto e solo da me; posso avere un livello di competenza altissimo, tuttavia non posso escludere che ci sia qualcuno che ha maggior impatto sul datore di lavoro, per capacità, simpatia, conoscenza diretta. In questo caso quindi il fallimento avviene senza mia causa.

Dice Paolo Choelo:

Soltanto una cosa rende impossibile un sogno: la paura di fallire.”

Capita che la nostra mente attui un meccanismo di difesa dal fallimento che prevede il sabotaggio, o meglio l’auto sabotaggio.

Bella l’etimologia di questa parola piuttosto recente: dal francese “sabot = zoccolo”, usato per prendere a calci e rompere i macchinari nel corso delle proteste durante la rivoluzione industriale che infiammò il 1800. Calzatura scomoda, in legno, simbolo della povertà estrema degli operai, diventa arma efficace di rivolta per i licenziati. Ovviamente il termine è evoluto, anche con connotazioni negative, ma resta a indicare un’azione di disordine, di ribellione, che utilizza la neutralizzazione dei mezzi in modo da renderli inefficaci.

Sotto sotto mi ricorda anche un po’ – anche se la materia è altra – la tecnica delle mamme delle generazioni passate, compresa la mia, campionesse indiscusse nel lancio della ciabatta che talvolta era il mitico zoccoletto del dott. Tal dei Tali.

Perché un sabotaggio abbia successo è necessario individuare l’oggetto da combattere, il nemico e l’oggetto da danneggiare, rendendolo inefficace.

Quando la paura di fallire è connessa a una bassissima, se non inesistente, fiducia nei nostri stessi confronti, preferiamo auto-sabotarci, in moda da tagliare la testa al toro.

Facciamo ancora un esempio, che fra l’altro si riferisce a una circostanza piuttosto diffusa.

Al cospetto della consapevolezza di avere un impegno importante, una scadenza, quale ad esempio un esame universitario, invece di agire (magari in preda alla strizza di essere bocciati) studiando e preparandomi adeguatamente, perdo tempo, rimando l’apertura di quel maledetto libro in ogni modo: mi attardo a scorrere instagram, tiktok, cucino, metto a posto l’armadio, porto fuori il cane.

Non è semplice perdita di tempo. È autosabotaggio.

Se studio e non lo passo, caspita, è un fallimento, ma se non lo passo perché non ho studiato … beh, in qualche modo ho un motivo valido, e quindi non lo posso configurare come fallimento!

Questo è sostanzialmente il suggerimento della tua mente. Nella realtà, restando terra terra, una colossale auto presa per i fondelli altresì definibile come “darsi la zappa sui piedi da soli”!

Esistono svariate tecniche di autosabotaggio. Un’altra ad esempio è non agire nell’attesa di tempi migliori:

Tanto ora sarebbe inutile/non c’è tempo. Domani, o un domani, lo farò”.

In un tale contesto psicologico il mettere in atto le proprie capacità diventa uno sforzo recepito come superfluo, come un inutile spreco di energie.

Altra strategia autosabotante è aggrapparsi ai luoghi comuni: “Tanto funziona sempre così”. È il caso soprattutto delle delusioni sentimentali, dove diventa facile lasciarsi andare allo stereotipo degli uomini sempre mascalzoni e delle donne stronze o … .

Talvolta l’autosabotaggio è causato dalla paura del cambiamento, dal timore di perdere quelle certezze che ho trasformato in caldo e sicuro nido. L’idea ad esempio di accettare un lavoro che presupponga un trasferimento, oppure lo stesso sposarsi o andare a convivere. Ecco che allora, piuttosto che affrontare la modifica dello standard della propria vita, ci rendiamo incapaci di affrontare il novo obiettivo: facciamo in modo di apparire inadatti a quel lavoro, oppure diciamo al partner che no, ci spiace, ma non pensiamo che la vita di coppia possa funzionare.

Tutti atteggiamenti mentali sbagliati, che finiscono per diventare autolesivi.

In fondo c’è una sorta di consapevolezza nell’autosabotaggio che è funzionale allo scopo: indulgere ad autocommiserarsi una volta ottenuto lo scopo del fallimento: “È tutta colpa mia!”, e con questo abbiamo chiuso il cerchio … che però, come tutti i cerchi che si rispettino, è destinato a ripercorrersi, a inseguirsi.

E allora spezziamolo questo stramaledetto circolo vizioso! Smettiamola di segare il ramo su cui stiamo seduti in bilico perché non è certo precipitando nel vuoto che avremo ottenuto il miglior modo di scendere.

La psicoterapia è la soluzione. Lo dico con forza e lo ribadisco: l’unica soluzione. Essa è in grado di spezzare il meccanismo, in modo assai più agevole e piacevole di quanto tu possa immaginare. Ciò che ti appare insormontabile nasconde una soluzione che già possiedi, ma che talvolta credi sia più semplice non vedere.

Innanzitutto è necessario riacquistare un giusto e obiettivo giudizio di sé, che comporti anche le inevitabili critiche, purché costruttive, e individui limiti e pregi. Lavorando su questi ultimi (che ci sono, che hai, che possiede chiunque, pure tu!) sarà possibile instaurare con la mente un rapporto di collaborazione, abbandonando il proposito del conflitto strategico: insomma, prenderci a zoccolate non solo impedisce il successo, provoca inevitabili contusioni psicologiche, ematomi mentali dolorosi e a rischio di degenerazione.

Mi trovi a Monterotondo, in un ambiente che di per sé è una coccola per gli occhi e la mente, ma anche on line, ringraziando questa meravigliosa tecnologia che annulla le distanze.

Chiama. Fallo! È già un primo passo di autodifesa, di autotutela. Buon vento 😉

Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online