Leggimi il pensiero sulla pelle (seconda parte)

Allora, con l’articolo della scorsa settimana sono riuscito a incuriosirvi un po’?

Una cosa ci è ormai molto chiara: svincolato il tatuaggio dagli schemi preconcetti che nei tempi trascorsi lo avevano relegato a elemento distintivo di categoria, e liberato dei pregiudizi intorno a esso, oggi si è diffuso a macchia d’olio. Si decide dunque di tatuarsi semplicemente perché ci piace. Spesso la scelta è dettata dal solo istinto, molto spesso invece si parte con una precisa idea già in testa.

È un vezzo, un ornamento, un messaggio, una dichiarazione di voglia di cambiare attraverso un atto estremo, definitivo, non come il colore dei capelli o in taglio azzardato dai quali si può comunque tornare indietro.

Le scelte ricadono solitamente su tre tipologie:

  • Disegni o figure elaborate;
  • scritte;
  • simboli.

DISEGNI, FIGURE

La prima tipologia è molto emozionale, estetica, tuttavia lascia trasparire in maniera piuttosto netta la personalità: desiderio di libertà, di evasione, delicatezza d’animo, forza e coraggio, fedeltà, amore eterno, ingenuità, passione, rabbia, ribellione … ogni sentimento che riteniamo ci rispecchi più di ogni altro prende forma di animali, fiori, elementi della natura, figure mitologiche.

Difficilmente vedremo Hello Kitty sull’avambraccio di un palestrato in giubbotto di pelle o un drago a otto teste sulla scollatura di una signora dei salotti bon ton.

Anche i colori raccontano molto: assenza, sovrabbondanza o un velo discreto, forti o tenui, netti o sfumati, nascosti o esposti. Tutte sfaccettature della gamma cromatica che ci portiamo dentro.

La collocazione che scegliamo è piuttosto in evidenza o appena e sapientemente celata: portiamo sul corpo un’opera d’arte e desideriamo mostrarla. L’immagine assume le caratteristiche di un gioiello di famiglia dal quale non ci si separa mai o di un abito nel quale ci troviamo particolarmente a nostro agio.

Questa tipologia denota anche una certa vanità, il piacere di mostrarsi; il bello ha il sopravvento sul messaggio e ne diventa il veicolo.

SCRITTE

Fra le varie scelte è certamente la più netta, meditata e forte. Una frase simbolo o una sola parola, uno slogan; verba volant scripta manent, anche chi non conosce il latino ne è consapevole: tatuare sul proprio corpo parole equivale a un proclama. Il messaggio è il punto di forza.

Non è raro che si opti per una lingua straniera; ciò da una parte denota un desiderio di universalità e condivisione ma dall’altra anche quello di lasciare un velo di mistero, che non sveli troppo, magari incuriosisca ma resti un discreto segreto. Peccato che succeda, soprattutto quando la scelta ricade su grafie non europee, quali l’arabo, il cinese, il cirillico, che neppure il possessore ne conosca  a fondo il significato, oppure che semplicemente il tatuatore abbia sbagliato qualche segno stravolgendone o vanificandone il senso. È comunque un rischio che si è disposti a correre pur di raccontarsi al mondo.

Il font scelto è una vera e propria porta aperta sulla psiche, quanto il significato in se stesso: stampatello, corsivo, lettere nette e scure quasi incise su pietra o il leggero tocco di un pennino che scivola, contorni duri o arzigogolati, arroganti maiuscole o delicate minuscole, righe nette, come tracciate su di un quaderno da un allievo diligente, o morbide onde senza una direzione precisa. Cerchiamo di avvicinarci il più possibile a quella che sarebbe stata la nostra calligrafia nello scrivere quella frase e un grafologo sarebbe in grado di svelare anche le righe nascoste.

 

E ancora la posizione: spesso le scritte trovano posto nei punti più nascosti, occhieggiano dagli abiti svelandosi solo in parte e aumentando la curiosità in chi cerca di leggere e tradurre. Infine, quanta soddisfazione si prova nel vedersi letti e sbirciati come una chat sul telefonino dello sconosciuto che ci è seduto accanto?

Quando la scelta ricade su di una sequenza di numeri il mistero s’infittisce. Una data, un codice, un telefono? Il messaggio sembra quasi essere: “Ecco. Ora muori pure dalla curiosità!”.

 

SIMBOLI

Tribali, celtici, filosofici, espressione di religioni lontane e affascinanti.

Di solito sono tracciati nel contrasto del nero sulla pelle, piuttosto netti, invasivi.

Quelli tribali hanno un ché di maschile, forte, selvaggio. Coprono prepotentemente gli arti, il collo, la testa, raccontano una lingua basica, quasi più suono che linguaggio vero e proprio, paesaggi lontani, incontaminati e selvaggi, una natura sovrana a cui chinare il capo e sottomettersi, rituali danzati al suono dei tamburi intorno al fuoco. Raccontano di noi quel lato che ha radici profonde nascoste dal tempo e dalla quotidianità, il desiderio di ritorno alla natura, alla madre terra, un disagio agli schemi. Li vediamo occhieggiare spesso dai polsi stirati e trasparire dalle camicie candide di impiegati e manager, per poi svelarsi prepotenti attraverso gli abiti estivi, quasi abito loro stessi.

Alcuni invece sono prettamente ideologici, nascondono appartenenze, fedi, rituali di corporazione. Ho detto nascondono perché purtroppo capita che dietro questi simboli si celino fantasmi di una storia mai dimenticata e neppure mai sotterrata, e raramente ciò viene fatto senza consapevolezza. Anche in chi ne ignora il significato suscitano una sorta di diffidenza e timore, evocando satanismo, massoneria, apologie ideologiche.

Del resto chi li sceglie non ha certo lo scopo di trasmettere un messaggio rassicurante!

Molto spesso non sono isolati ma tendono a moltiplicarsi nel tempo fino a occupare gran parte del corpo; i colori, quando presenti, sono molto forti, con una netta predominanza del rosso in abbinamento al nero.

Una vera e propria dichiarazione di chiusura e corporazione, arroganza e presunta superiorità.

Di contro c’è tutto un simbolismo mirato a trasmettere messaggi di serenità e pace.

Ricordate il Namaste di cui abbiamo parlato la scorsa settimana?

Ebbene esso è solo uno, forse tra i più noti e diffusi, dei tanti derivati dalla pratica yoga, dal buddismo, e dalle filosofie in genere orientali  o di civiltà perdute, oltreché dai pellerossa.  Un mondo affascinante e spesso mitizzato, identificato come detentore di principi morali perduti, di equilibri fra psiche e natura.

Yin e yang, l’acchiappasogni indiano, sole e luna, l’occhio di Ra, l’infinito; tutti denotano una mano tesa alla spiritualità e a un’etica di vita.

La collocazione? Molto spesso la scelta ricade su parti del corpo non visibili a colui che lo porta: spalle, nuca, schiena.  È in fondo l’espressione estetica di un’idea e l’importanza della sua visibilità diventa relativa.  In perfetta aderenza con il pensiero, le linee sono fluide, quasi mosse dal vento; i colori, se presenti, tenui con preferenza dei toni dell’azzurro e del verde, chiaro richiamo alla natura.

 

Decorazione, vezzo, ma per nulla casuale dunque; piuttosto una chiave di lettura del nostro più intimo essere.

Alla diffusione del tatuaggio se ne accosta un’altra, sebbene più di “nicchia”, quella dei piercing. Anch’essi sono in grado di rivelare molto, dalla posizione scelta, al numero, dalla tipologia. Ma questo sarà al limite argomento da affrontare, se vorrete, in futuro.

Un’ultima considerazione sul successo che negli ultimi tempi riscuote l’arte del tatuaggio. Per quanto piccoli o vagamente percettibili, essi contribuiscono a liberare dalla sensazione di nudità. È un processo mentale piuttosto semplice: un elemento estraneo impresso sulla pelle assolve al ruolo di un pezzo di stoffa che copre, inducendo maggiore sicurezza e senso di protezione.

Buon vento!

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

 

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