Io piango, tu piangi, lei piange … lui no!

Io piango

tu piangi

lei piange, lui … no!

noi piangiamo

voi piangete

esse piangono, essi … manco morti!

Piangere: verbo irregolare per mancanza della terza persona singola e plurale maschile.

Gli uomini e quel maledetto terrore della debolezza.

Dovrei mantenere una sorta di distacco, ma in fondo a che scopo? Questo nostro appuntamento settimanale è una sorta di dialogo informale, una chiacchierata, e allora riformulo l’incipit:

noi uomini e quel nostro maledetto terrore della debolezza.

Gli uomini non piangono, se soffrono non lo fanno vedere. Non cedono.

Se abbracciano, spesso cogliendo l’occasione per far sguizzare il bicipite, è per accondiscendere a un’esigenza di chi riceve l’abbraccio, per proteggere, consolare, oppure abbracciano per goliardia, a suon di vigorose manate sulla schiena con tanto di accompagnamento verbale degno di un barbuto accademico della Crusca, oppure nell’amplesso.

Se talvolta invece scappa di piangere, il pianto è accompagnato da rabbia. Sì, perché le lacrime dentro al corpo di un uomo vivono sotto chiave, in catene, nascoste e godute solo nell’intimità come in un harem, e se qualche volta scappano, è un oltraggio in odore di sconfitta, e una vergogna.

Quanti uomini piangono per un film? Quanti si commuovono per un saluto in stazione?

Quanti tirano fuori il fazzoletto al matrimonio del figlio, o alla laurea?

Sì, a modo nostro piangiamo pure noi uomini.

Molto a modo nostro, perché più che a un pianto assomiglia a una colica renale: ci produciamo in una performance di smorfie, stringiamo i denti, strabuzziamo gli occhi, magari ci prendiamo a schiaffoni sulla coscia oppure ravaniamo all’impazzata dentro alle tasche martoriando il vestito buono, se fumiamo diamo fondo al pacchetto e sbuffiamo dalle narici come Grisù, raschiamo la gola alla ricerca delle tonsille perdute, tossiamo, ci soffiamo il naso e ci perdiamo in una rabbiosa estasi osservando il fazzoletto …, tutto, facciamo di tutto per ricacciare indietro l’infamante esternazione di quella commozione che nasce dallo stomaco, preme nella gola, spinge attraverso gli occhi e si traduce in lacrime. Per la miseria! Piangere “come femminucce”! Che figuraccia di m…!

È forse colpa della natura? Il corredo genetico maschile e femminile presenta differenze a livello del condotto lacrimale? È una questione meccanica, tipo la prostata?

No, nulla di simile, e in fondo neppure di grave. Siamo fatti uguali, almeno a livello di rubinetteria lacrimale. È più o meno solo una sorta di “prostatite mentale”.

“Boys Don’t Cry”, i ragazzi non piangono, cantava Robert Smith con The Cure nel lontanissimo 1980, e una decina di anni dopo gli faceva eco Mia Martini, constatando amaramente che quei ragazzi, diventati uomini, “… non cambiano”.

Forse risento ancora del clima sanremese; certo è che nelle canzoni che fanno da colonna sonora alla nostra vita si sprigionano note intrise di psicologia che aprono ottimi spiragli di riflessione.

La Martini parla di donne che piangono per amore, per delusione, per intere notti, e non è un caso che l’album in cui inserisce il pezzo si chiami “Lacrime”.

In analoghe circostanze canore di delusione e tradimenti, gli uomini in genere non piangono: spaccano, massacrano i tasti del pianoforte, sfracellano la chitarra come Jimi Hendrix, gridano, s’incazzano, si disperano, corrono a fari spenti nella notte, stringono pugni chiusi a mezzanotte e tre, rompono le palle all’amico snocciolandogli tutta Teorema di Ferradini (quella famosissima di “prendi una donna, dille che l’ami e lei vedrai che ti lascerà …”), ma col piffero che cacciano una lacrima!

L’unico è forse Battisti, che si lascia andare a briglie sciolte e dichiara a gran voce: “Piangeroooooooooò!”.

Il lavaggio del cervello inizia sin da quando siamo piccoli. Se ti sfracelli con la bici e la rotula si scambia di posto con lo zigomo, guai a piangere, e pure al pronto soccorso ti avvertono: “Bravo ometto! Così! Stringi i denti. Da duro! Non devi piangere, non sei mica una ragazzina!”.

Passato lo svezzamento, la lacrima diventa infamante, non c’è scampo, a meno di voler affrontare l’attacco massiccio dei più biechi, scontati e volgari luoghi comuni sessisti e omofobi.

Gli uomini non piangono perché piangere è sintomo di debolezza, di fragilità! Quando peraltro basta strofinarsi gli occhi per vedere che le donne sono tutt’altro che deboli e fragili.

Eppure sta stupidaggine non è che affondi le radici poi così tanto indietro nel tempo!

A partire dalle grandi opere dell’antichità, piangono tutti.

Prendiamo l’Iliade e l’Odissea: eroi scoppiettanti di muscoli come pop corn, unti come frittelle, barbuti, irsuti, armati fino ai denti, uniti in un piagnisteo epico. E poi gli uomini piangono anche nella Divina Commedia, piangono nelle tragedie di Shakespeare; piangono re, papi, imperatori, apostoli, divinità pagane e non, e piangono i santi.

Quando e chi ha deciso di privare l’uomo moderno di questa naturale valvola di sfogo, lubrificante per gli occhi e per la mente?

Esistono anche soggetti che “non piangono”, non quindi che “trattengono” il pianto, ed essi sono tanto maschi che femmine. Pensate che c’è addirittura un neurologo comportamentale, professore emerito allo University College di Londra, Mihael Trimble, che assieme ad altri colleghi ha condotto una ricerca su “individui che non piangono”.

Non è il caso degli uomini. Quanto ho cercato di esporre, in modo anche dissacrante, è teso proprio a dimostrare che le capacità emotive degli uomini (di noi uomini) sono esattamente identiche a quelle delle donne, e non hanno nulla a che vedere con l’impossibilità o l’incapacità di piangere.

Ancora una volta quindi ci tocca constatare che è lo stereotipo il vero limite del libero pensiero e delle azioni che ne derivano. Bisogna pure notare che è uno stereotipo tutto al maschile, e del quale le donne sembrano invece non essere vittime: esse apprezzano l’uomo che sa piangere! Ovidio, il grande poeta romano, nelle sue opere suggeriva ai giovani uomini il pianto come irresistibile forma di seduzione, e Virgilio parla, nell’Eneide, di “lacrimaeque decorae”, lacrime decorative, che fanno apparire l’uomo più attraente nei confronti dell’amante.

Il pianto è una forma di comunicazione non verbale innata ed efficacissima, che mette in moto tanto in chi piange che in chi assiste al pianto, tutta una serie di reazioni positive e fortemente liberatorie.

Di contro, lo stereotipo dell’uomo che non piange si rivela fortemente dannoso, oltreché noioso, trascinandosi dietro una serie di tabù tra cui una minor propensione a chiedere aiuto rispetto alle donne, anche nei confronti di patologie psicologiche.

Le conseguenze purtroppo sono, ad esempio, la gelosia ossessiva, l’incapacità di affrontare la separazione, l’insoddisfazione lavorativa, la depressione.

Gli uomini non piangono, ma comunque soffrono. Gli uomini, purtroppo, non piangendo negano di soffrire, anche a se stessi. Succede allora un po’ come con il gas: se si sigillano porte e finestre ma si lascia aperta la valvola, basta un dito che sfiora un interruttore e tutto esplode.

La psicoterapia offe la possibilità di aprire quelle benedette finestre, di arieggiare il cervello e intraprendere quel dialogo interiore che apre varchi anche nella più dura e maschia delle scorze.

Se dunque l’ultima volta che hai pianto eri all’asilo, pensaci seriamente, e chiamami.

Buon vento dalla mia finestra sullo splendido panorama di Monterotondo, che già strizza l’occhio alla primavera.

 

 

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online

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