La subcultura dello stupro

“… e ora puoi anche sbattermi a terra e fare i tuoi comodi. Potresti anche chiamare i tuoi amici e fare tutti quanti i vostri comodi. Tanto mi rialzerò … una bella lavata e tutto sarà come prima. Nessuna donna è mai morta per uno stupro.”

Queste le parole (più o meno, vado a memoria) che pronuncia la protagonista di un film.

No, non è un pornazzo da sala di periferia, ma uno di quei film che stanno alla storia del cinema come Romolo, Remo e la lupa alla fondazione di Roma, con in più una colonna sonora di quelle che riconosce pure il gatto.

Terribile! Allucinante.

Non dirò né il titolo del film, né il regista né la magnifica attrice che pronuncia questa frase, perché non lo ritengo giusto in relazione al mio ruolo e alle mie intenzioni. Il film è bellissimo. Non si discute e non intendo scalfirne la potenza artistica con quella che è una mia riflessione. Sicuramente comunque qualcuno di voi lo riconoscerà.

Il cinema è finzione, o meglio finta rappresentazione della verità, e questo va bene. Può avere addirittura un ruolo catartico nell’esternazione della violenza. Tutto è scena, anche la parola. E pure questo va benone.

Qui però la faccenda è diversa. In questa frase si avverte l’odore di uno stereotipo che riaffiora e incancrenisce la società sin dalla notte dei tempi, sin da quando Zeus si trasformava pure in pioggia pur di violentare la vittima di turno.

No, non è vero che “nessuna donna è mai morta per uno stupro”. Di violenza sessuale si muore, per le botte, per i traumi, per le emorragie, per la follia finale dello stupratore che stringe intorno alla gola o apre la carne col coltello, ma esiste una morte che va al di là della cessazione delle funzioni vitali, una morte insopportabile perché paradossalmente coesistente alla vita.

È la morte che necrotizza la voglia di vivere e di amare di chi è stata, e anche stato, vittima di stupro.

No, non “basta una lavata”. Resta il dolore, anche quello fisico, che si fonde con quello morale fino a non essere più distinguibile.

Il corpo possiede memoria. Ogni volta che ci sarà penetrazione, anche quale naturale espressione di amore e passione, anche desiderata, le viscere avranno ricordo del male, dello schifo, e l’eccitazione si trasformerà in paura e disgusto.

La mente – e questo ben lo sappiamo – possiede memoria. Ogni parola già sentita durante lo stupro, anche se pronunciata da altra bocca e in altro tempo e luogo, anche dolce, sarà una frustata.

Nessuno ne parla, ma le parole che accompagnano una violenza sessuale sono violenza che si somma a violenza. Praticamente sempre lo stupratore parla, o meglio, grugnisce, senza offesa per i maiali, insulta, offende, ansima, e la sua voce rimbomba direttamente dentro le parti violate. Se poi la violenza è di gruppo (e nel film si accenna anche a questo), si aggiungono le voci esterne, come lame di rasoio che colpiscono la pelle: risate, volgarità, versi, grida, incitamento …

Non esiste doccia in grado di lavare tutto questo: mani che frugano, lingue che penetrano, dita che scavano, membri, saliva, sudore, sperma, sangue, urina, barbe che grattano, peli che soffocano, denti che lacerano. Il suono dei vestiti strappati, delle cerniere che scendono, che si richiudono. Il silenzio come finale.

E poi c’è lo stupro del dopo. Quello degli sguardi e delle domande degli altri, della famiglia, degli amici, di chi raccoglie il racconto. Lo stupro verbale rifinito di fino, ripulito e approvato dall’Accademia della Crusca:

Cosa ci faceva in giro a quell’ora? (… ehi zoccola, lo sai che ore sono? …)
Si veste così abitualmente? (… lo sai che sei proprio una gran fi …)
Perché solo ora? Perché non ha denunciato subito? (… stai zitta, pu…, o ti ammazzo …)

Lei ha goduto, signorina? Ha avuto orgasmo? (… ti piace vero, brutta tro …)
Era vergine? (… Oh sì! Mi fai godere di più …)

Perché ha bevuto? Perché è salita in macchina? Perché è entrata in camera? (… E dai, non essere timida. Ecco, ti diamo solo quello che vuoi …)

C’è sempre un “perché?” che salta fuori, uno in più fra i mille “perché?”, persino quando ti guardi allo specchio i lividi, sola nel bagno, dopo aver cancellato con la mano l’appannatura di una doccia rovente e ti chiedi “ma perché non sono stata a casa?”.

Sì, è vero, loro sono i mostri, ma tu? Sicura di non avere responsabilità? Mostri sì, ma per colpa di quelle scarpe tacco tredici indossate in un locale alle due di notte!

La colpa. È questo il senso che ti frega, la grande astuzia da cui parte lo stereotipo che svincola e coccola il crimine.

Nella violenza sessuale si concentrano tutti i peggiori sottoprodotti legati alla sopraffazione:

  • punizione
  • possesso
  • superiorità
  • superficialità
  • coercizione
  • crudeltà
  •  … continua tu. Ogni gradino del peggio si adatta.

Persino, aprite bene le orecchie, “moralizzazione”. Sì, lo stupro in funzione moralizzante nei confronti della donna considerata poco morale!

C’è una bellissima canzone di una decina di anni fa, in dialetto napoletano, che denuncia senza censure verbali e morali quella che è la condizione femminile nell’immaginario sociale comune:

“mamma, puttana o brutta copia ‘e n’ommo …”

Ecco la radice del problema, del male: “Madre, prostituta, oppure brutta copia di un uomo”. Pensiero antico? Superato? No, non ne sono così sicuro. Sepolto magari, ma sotto uno strato di sola polvere.

Mi spiace dirlo, ma il problema è l’arroganza maschile, quella tesa al dominio del mondo, al controllo degli eventi, quella che risponde all’estremizzazione del maschio alfa e alla logica aberrante del branco.

Nulla a che vedere con tutti noi uomini normali, sani, onesti e buoni. Sì, buoni. Dobbiamo smetterla di avere paura di questa parola, che da qualche tempo viene recepita quasi come ridicola e ipocrita. Noi maschi buoni, ripeto, noi padri, mariti, figli, noi che se la nostra donna ci dice che ha mal di testa per un mese di seguito, ci preoccupiamo e chiamiamo il medico della mutua; noi che l’amore lo facciamo perché amiamo, oppure semplicemente per desiderio, ammesso che lei/lui ne abbia altrettanta voglia.

Noi, quelli buoni, che siamo i più, non c’entriamo un accidenti con questi “maschi alfa, beta e omega serie zeta”, e l’unica logica di branco che conosciamo è quella della fede calcistica.

… eppure …

Eppure non è che ci ammazziamo dalla voglia di dimostrarlo a viso aperto! Non è che non stiamo nella pelle dalla fregola di metterci la faccia, prendere posizione globale, netta, universale, manifesta! Anche attraverso un movimento di piazza, perché no! Di quelli con tanto di cartelli e slogan, per far sapere che NO, con quel genere di uomo IO NON HO UN FICO DA SPARTIRE.

E invece ce ne stiamo zitti zitti, condanniamo sì, ma a casa nostra, oppure pubblicamente, ma come singoli, mai come categoria. Questo sì che sarebbe un bel modo di fare branco, ma ce lo lasciamo sfuggire. Ci manca il coraggio?

Guardiamo con un velo malcelato di sospetto, con una punta di disprezzo e una spolverata di ironia ai movimenti femminili di denuncia. Non è difficile scorgere anche un lieve sentore di vittimismo, invidia e un sentore di arcaica misoginia, simile alla puzza di burro rancido, oppure peggio, a quella di una patata marcia fra le buone.

Noi siamo quelli buoni, i più. Anzi, la maggioranza assoluta! Quelli gentili. I “gentiluomini” … Apriamo le portiere e versiamo da bere alle donne. Ebbene, è l’ora che prendiamo coscienza che le donne – per quanto apprezzino –sanno benissimo aprirsi le porte da sole, compresa quella dell’auto, e preferiscono versarsi la quantità di vino o acqua che pare loro, anche perché sollevare la bottiglia non è che sia tutta sta faticata!.

Quello che vorrebbero è la libertà di fare un
sorriso senza che chi lo riceve pensi “oh sì, questa me la dà!”, è la comprensione di una semplice sillaba che si pronuncia “No” e significa “No”, perché qualora fosse “Sì” non avrebbe problemi a dire “Sì”!

Vorrebbero la dimostrazione che il mondo è evoluto dall’epoca delle vignette con il cavernicolo che trascina la cavernicola per i capelli, dai fratelli e dal padre che vogliono lapidare in piazza l’adultera (e che già allora, circa duemila anni fa, Gesù mandò a stendere), di Torquemada che brucia le donne assieme ai gatti neri. Vorrebbero che fra “gnocca” e “cesso” ci fosse un ampio ventaglio di giudizi di altra natura.

Metaforicamente parlando – ma neppure troppo – le statue sbagliate si abbattano innanzitutto nella mente, altrimenti rischiamo di aver solo cumuli su cumuli di inutili macerie. Si combattono anche lasciandole invecchiare e sgretolare corrose dalla cacca di piccione, senza costruirne di nuove.

Credo che ora tocchi a noi, agli uomini intendo, al prezioso genere maschile al quale sono orgoglioso di appartenere, perché desidero che l’orgoglio non sia intaccato da alcuna vergogna.

Allora, chi è con me?
Su Monterotondo sta scendendo il sole.

Mi trovi qui, se hai bisogno di parlare della tua esperienza, oppure anche on line, se ti è più facile. e se hai la curiosità di sapere di che film si tratta, in privato te lo dirò. Scommetto che l’hai visto e che neppure avevi fatto caso a quella frase. Ed è proprio questo il problema.

Mi scuso, perché l’argomento richiederebbe molto ma molto più spazio e tempo. Tornerò a riparlarne, promesso.

Buon vento 😉

 

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e ONLINE