La morte è un palloncino

Elaborare il lutto. 

È un’espressione talmente brutta che mi viene voglia di dirti:

«Guarda, “elaboralo” tu, poi ne riparliamo …»

Sul serio … quanto è brutto, freddo, asettico, odioso, questo modo di definire una problematica tanto intima, tanto connessa ai più delicati e veri dei sentimenti?

Rimanda all’idea di una macchina che calcola, elabora appunto, o di una sorta di catena di montaggio alla Charlie Chaplin di Tempi Moderni; alla meglio fa venire in mente un progetto, ma di quelli tipo piano parcheggi o viabilità dell’amministrazione comunale.

Lutto! Pure questa parola non è un granché per tirarsi su. Viene dall’immancabile latino, “lugere” ovvero “piangere”. Ne deriva che in senso letterale, quando si dice che qualcuno è in lutto significa che è intento a piangere!

E così l’espressione “elaborare il lutto” diventa ancora più odiosa e acida, quasi che attraverso un calcolo, una pianificazione strategica, si riuscisse a neutralizzare il pianto.

Ok, lo so. Non dovrei espormi in questo modo. Io sono uno psicologo, uno psicoterapeuta, ho un bello e accogliente studio a Monterotondo, nella verde campagna romana, nonché una splendida connessione ultraveloce che mi porta senza fatica nelle vostre case anche molto lontane, e l’elaborazione del lutto è nella lista delle specificità della mia professione. Forse non dovrei neppure ricordarlo, dato che lo ripeto spesso, ma a scanso di equivoci, sterili polemiche ed eventuali strumentalizzazioni, ribadisco che questo spazio semi virtuale è decisamente più personale che professionale, e quindi mi sento autorizzato a dire … un po’ quello che mi pare! Uno spazio insomma, come ho ripetuto più volte, in cui l’uomo talvolta sorpassa lo psicologo, pur procedendo sostanzialmente a fianco e in accordo.

Sì, non mi convince sta storia dell’elaborazione del lutto. È un rifiuto linguistico, non concettuale. Parlerei piuttosto di una sorta di processo digestivo, e prima che giudichiate la faccenda dissacrante, vado a cercare di spiegarvi il perché.

Il lutto è legato alla morte. 

La morte è il più naturale e al contempo il più drammatico avvenimento che siamo costretti a vivere. Più naturale anche della nascita in quanto a differenza di essa, inevitabile. Insomma, il nascere non è cosa scontata, ma morire una volta nati sì, lo è. Almeno …, come diceva il mio professore di filosofia, diamo per scontato il morire perché la storia e la conoscenza non ci forniscono testimonianze contrarie; tuttavia, mai dire mai!

La morte è un qualcosa di indefinibile persino verbalmente, se non attraverso una fredda spiegazione di carattere medico che mette in evidenza la cessazione delle funzionalità vitali.

Ma che cos’è la morte nel nostro immaginario? L’azione estrema? Un semplice passaggio?

È la fine di una determinata materia che cessa il suo processo su questa terra.

La morte è quindi un qualcosa di assolutamente materiale, anzi, materico, che è ancor più impattante.

È assolutamente innaturale concepire la morte per chi è in vita. È doloroso, lacerante, devastante.

Quando muore qualcuno che ci è caro è come se subissimo un’amputazione. È come se delle invisibili dita di ferro si stringessero attorno al nostro collo, è come se l’ossigeno dell’aria andasse a farsi benedire.

La quotidianità assomiglia al dormiveglia. Si va avanti, ma per inedia, come i cavalli con il paraocchi e la testa bassa al suolo.

Sì, per alcuni interviene  la carezzevole idea che c’è un posto, altrove, migliore, anzi il migliore in assoluto, perfetto ed eterno, dove ci ritroveremo.

Per quanto però possa essere forte la fede, per quanto il concetto di spirito che sopravvive sia addirittura indipendente da essa, la morte provoca una forte sensazione di mancanza, di privazione forzata. E quello che manca è la materia che costituiva chi non c’è più: l’odore, la consistenza della pelle, la temperatura delle mani, la sensazione liquida dello sguardo, la voce, il rumore dei passi sul pavimento. Ci mancano i gesti, gli scambi, anche gli scontri, le liti.

Ci rendiamo conto che tutto ciò che costituiva la persona era in realtà cosa non solo sua, ma parte di noi, quanto lo sono le braccia, i capelli, le ginocchia, il fegato, ed è come se improvvisamente ci fossero stati tolti, strappati di netto, lasciando una ferita talmente dolorosa da sembrare non più rimarginabile. Moriremo anche noi di cancrena – pensiamo – per via di quella ferita che s’infetterà sempre più, fino a diventare tossica!

È un qualcosa che va al di là della paura di morire. È la paura di perdere chi amiamo; è la convinzione che non riusciremmo a sopportarlo.

Quanti di noi da ragazzini hanno pregato (persino da atei convinti) di poter morire prima dei propri genitori? Che potessero un giorno chiudere gli occhi per sempre ci appariva come un pensiero insopportabile, e non solo in età infantile e adolescenziale, ma anche da adulti. E poi accade. L’incubo si trasforma in realtà.

Muoiono. 

Incredibilmente quello che appariva insopportabile viene sopportato. Viene “digerito” come avevo detto prima, e si va avanti. si ritirano i loro effetti personali, si smantella la casa, le loro cose che contengono ancora lo spirito, l’odore.

L’assistere da parte di un figlio alla morte di un genitore è geneticamente e cronologicamente naturale. Non lo è il contrario; eppure anche in questa eventualità si riesce incredibilmente ad andare avanti.

Ogni morte rappresenta un fatto drammatico, ed è giusto che sia così: la morte di un padre e di una madre, del compagno, del proprio animale.

A qualunque età la si viva, qualunque siano le circostanze, qualunque sia il legame speciale, arriva come un pugno in pieno stomaco, arriva l’insonnia, l’angoscia. È una metamorfosi dolorosa perché quello che eravamo prima non esiste più. Per quanto siamo circondati da altri affetti e amori intensi, sperimentiamo la solitudine. È una solitudine fredda, gelata e incolmabile, e ci sfiora il pensiero che d’ora in poi sarà sempre inverno. 

Ma non è così: l’inverno passerà, il tormento si stempererà e sboccerà il ricordo, bello e struggente, come un fiore in primavera. 

Ecco perché dobbiamo rispettare il nostro “lutto”. Ecco perché non dobbiamo cercare di sfuggire a esso, attendendo che il pianto cessi naturalmente, dopo aver avuto il suo naturale e lecito sfogo.

Se però l’inverno interiore non cessa, se il ricordo diventa tarlo che rode, che crea sensi di colpa o rimpianti, se il pensiero di chi non c’è più si trasforma in mito e ossessione, allora purtroppo è il caso di passare a prendere in considerazione quella brutta parola, “elaborare”, e applicarla a quel pianto incancrenito, a quel “lutto”. 

Talvolta è sufficiente parlarne, semplicemente, naturalmente. Raccontare cose, anche le più banali, svelare i rimorsi e i rimpianti. Esternare, buttare fuori, non permettere al “lutto” di diventare cronico. Questo è l’essenziale per affrontare e “digerire” questo passaggio amaro ma inevitabile nel banchetto della vita, che ci accomuna tutti.

Non v’è rimedio per la nascita e la morte, salvo godersi l’intervallo.” Lo ha detto Arthur Schopenhauer e non si può che chinare il capo e annuire, tuttavia la definizione più bella l’ha data un anonimo bambino:

Il nonno ora è come un palloncino che è volato via e non lo puoi più riprendere

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Buon vento, e che giunga a chi amiamo.

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e Online