Nel mio studio a Monterotondo, così come nei percorsi di supporto psicologico online, moltissime persone mi raccontano con una certa sofferenza di un’esperienza comune, apparentemente banale, eppure ricorrente e dolorosa: quella del “visualizzato senza risposta”, ovvero quando un messaggio, spesso carico di aspettativa, vulnerabilità o semplice desiderio di connessione, viene letto, ma non riceve alcuna risposta, e il silenzio, anziché attenuarsi col tempo, si fa presenza costante, assenza pesante, chiusura relazionale non detta ma profondamente percepita.
Viviamo, infatti, in un’epoca in cui la comunicazione è pervasiva, immediata, permanente, eppure paradossalmente sempre più carente di autenticità, reciprocità e ascolto reale. I dispositivi digitali ci permettono di essere costantemente reperibili, eppure anche costantemente in difesa, selettivi, distratti o, in alcuni casi, deliberatamente evitanti. Nell’ambito della pragmatica della comunicazione, già negli anni ’60 Paul Watzlawick e i suoi colleghi avevano osservato che “non si può non comunicare”, e questa assunzione si rivela oggi più vera che mai, soprattutto nel silenzio del “visualizzato senza risposta”: leggere un messaggio senza rispondere è un atto comunicativo, portatore di significati, intenzioni, emozioni, che tuttavia restano impliciti, ambigui, spesso indecifrabili per chi subisce quel silenzio, rendendo difficile distinguere tra disinteresse, superficialità, paura del confronto o semplice distrazione.

Il punto cruciale, tuttavia, è che questa modalità comunicativa, che in altri tempi sarebbe stata percepita come manifestamente scortese o addirittura crudele, oggi sta diventando socialmente accettata, quasi “normalizzata”, al punto che non rispondere a un messaggio non viene più interpretato da chi lo attua come una scelta aggressiva o passivo-aggressiva, ma come una facoltà legittima, una forma di autodifesa, un modo per esercitare il proprio diritto al silenzio o alla selettività, contribuendo però a creare un clima relazionale in cui l’ambiguità, l’insicurezza e la non-curanza rischiano di sostituire l’empatia, la responsabilità affettiva e la chiarezza.
Le ferite invisibili del “non detto”: impatti emotivi e conseguenze psicologiche
Per chi riceve (e subisce) quel silenzio, però, la situazione è ben diversa: essere “visualizzati senza risposta” genera frequentemente sentimenti di rifiuto, inadeguatezza, ansia, abbandono, riattivando spesso ferite relazionali pregresse, che possono risalire all’infanzia o ad esperienze di esclusione e svalutazione vissute nel corso della vita. La mancanza di una risposta, in particolare se attesa da una persona emotivamente significativa, può produrre stati di ruminazione ossessiva, pensieri negativi ricorrenti, dubbi su di sé e sul proprio valore, alimentando un dialogo interno autocritico e talvolta autodistruttivo: “avrò detto qualcosa di sbagliato?”, “non valgo abbastanza?”, “perché non mi risponde se mi ha letto?”, sono alcune delle domande che tormentano chi si ritrova a scrutare, più e più volte, quella notifica vuota che resta sospesa nel nulla digitale.
Nei casi più intensi e protratti, il “visualizzato senza risposta” può diventare persino una forma di micro-abuso emotivo, soprattutto se reiterato nel tempo e se inserito all’interno di dinamiche relazionali manipolatorie, basti pensare al ghosting, o alla tecnica del breadcrumbing, in cui l’altra persona sparisce e riappare senza coerenza, lasciando l’altro in balìa dell’incertezza. Le conseguenze possono includere abbassamento dell’autostima, isolamento sociale, difficoltà a fidarsi nuovamente, e nei soggetti più vulnerabili anche l’acutizzarsi di stati depressivi o ansiosi, con ripercussioni reali e significative sul benessere psicologico complessivo.

Quello che emerge, quindi, è che il silenzio digitale, pur essendo apparentemente “neutro”, può assumere una valenza di potere relazionale, diventando un modo per esercitare controllo, per punire, per svincolarsi da un dialogo non voluto senza assumersi la responsabilità di un “no” chiaro e diretto. La scelta di non rispondere, in certi contesti, sembra avere una carica simbolica quasi superiore al contenuto stesso di una risposta, trasformandosi in un gesto comunicativo che parla con forza, ma senza parole. Questa forma di comunicazione unilaterale, asimmetrica, diventa pericolosa quando viene interiorizzata come “normale”, alimentando dinamiche in cui l’altro viene ridotto a destinatario passivo di scarti comunicativi, anziché a interlocutore da trattare con rispetto.
Suggerimenti per chi ne è vittima: proteggersi senza disumanizzarsi
Alle tante persone che nel mio studio di Monterotondo o nelle sessioni online mi confidano il dolore e la frustrazione per essere state visualizzate e ignorate, propongo sempre di partire da un punto fondamentale: non sei sbagliato/a solo perché qualcuno ha scelto di non risponderti. Il silenzio dell’altro non è una prova oggettiva del tuo valore, ma è una manifestazione del suo modo di comunicare o della sua incapacità di farlo. È importante, in questi casi, non attribuire a sé stessi tutta la responsabilità della mancata risposta, evitando di costruire narrazioni mentali fondate sul senso di colpa o sulla necessità di cambiare per “meritare” una risposta.
Dal punto di vista pratico, è utile:
– Stabilire confini interni: se una persona non risponde più volte, o scompare senza spiegazioni, è lecito scegliere di non rincorrerla indefinitamente, e proteggersi dal logoramento emotivo.
– Evitare la dipendenza da conferme esterne: il bisogno di essere validati attraverso una risposta può essere profondo, ma va riconosciuto e gestito, non idolatrato.
– Coltivare relazioni sane: circondarsi di persone che rispondono, che comunicano apertamente, che non usano il silenzio come arma, è un antidoto potente contro le tossicità relazionali normalizzate.

Il “visualizzato senza risposta” non è solo una questione tecnologica o generazionale, ma una spia significativa di come la nostra società stia cambiando i codici del legame, della presenza, dell’empatia. E se è vero che “anche il silenzio è una forma di comunicazione”, è altrettanto vero che ogni forma di comunicazione porta con sé delle responsabilità: verso l’altro, verso sé stessi, verso il tessuto relazionale che ci tiene o ci dovrebbe tenere uniti.
In un mondo che ci spinge alla rapidità, alla superficialità e al distacco, scegliere di rispondere, anche solo con un messaggio breve ma umano, è un atto di cura. E per chi, invece, si trova a fare i conti con quel silenzio, è fondamentale non smettere di prendersi cura di sé, di dare voce alle proprie emozioni, di cercare o costruire spazi in cui il dialogo, quello vero, sia ancora possibile.
Se hai curiosità o domande chiedi pure e se ti interessa rimanere aggiornato settimanalmente, su temi relativi al benessere ed alla psicologia, puoi Iscriverti alla Newsletter sul sito www.federicopiccirilli.it
Se hai voglia puoi lasciare anche il tuo passaggio e il tuo feedback sulla Pagina Facebook Dott. Federico Piccirilli.
Buon vento
Federico Piccirilli
Psicologo, Psicoterapeuta
Terapie Brevi
Terapia a Seduta Singola
Ricevo a Monterotondo (RM) e ONLINE