Buon anno a tutti gli stupidi

È da stupidi sperare?
E allora buon anno a tutti gli stupidi! A chi sa stupirsi, a chi sa sperare.

Si dice che “chi vive sperando muore ca*ando”, ma è innegabile che la medesima fine la faccia pure chi vive senza speranza. E allora, tanto vale.
A proposito di citazioni, aforismi e affini, fra cui rientrano a pieno titolo anche i proverbi e gli indovinelli, tanto amati nella nostra tradizione linguistico-culturale, mi preme aprire una parentesi per precisare che per quanto non sia un accademico della Crusca so dove mettere e dove non mettere le doppie. Qualche problema magari sorge quando cerco di rendere in forma scritta il suono di espressioni dialettali, o che almeno al mio orecchio e alla mia memoria si affacciano prevalentemente in questa forma. Il romanesco in particolare, quello che caratterizza la parlata del Lazio, di Monterotondo dove vivo e lavoro, e che ho nelle corde vocali e nel pensiero che le fa vibrare, tende a rafforzare parecchio certe parole calcando una lettera, a renderle più incisive, invadenti, un po’ burine – o meglio sarebbe “bburine” …, e per restituirle graficamente mi viene spontaneo aggiungere una doppia là dove nel “libbro de gramatica nun ce sta”, oppure a toglierla, come ho appena dimostrato, o ancora a usare strani accoppiamenti di sillabe. Insomma, cerco di arrangiarmi con buona pace della matita rossa e blu della mia professoressa d’italiano, santa e preziosa donna, e me ne scuso se a qualcuno ciò può apparire fastidioso al punto di farmelo notare pubblicamente. Anzi, ringrazio per avermi dato l’opportunità di precisare quanto sono tuttavia sicuro che i più avevano comunque già compreso. Chiusa la parentesi (o la “parente” come diceva Totò).
Sperare è dunque cosa da stupidi? E allora vi auguro e mi auguro d’imparare a essere un po’ più stupidi. In realtà sarebbe più corretto dire che dovremmo tornare a essere stupidi. La radice di questa parola è “stupeo”, verbo latino che significa semplicemente “restare stupiti, guardare con stupore”. Gli stupidi usualmente intesi non centrano un fico secco.
È una parola bella in realtà, che però abbiamo voluto consegnare a una lettura negativa, d’insulto. Quando e come ciò sia successo non lo so; magari a questa curiosità può dare erudita risposta qualche purista della lingua. Immagino però il perché sia successo: abbiamo una paura fottuta di staccare i piedi da terra, perdere la corazza e apparire deboli, e così tendiamo a demonizzare tutto quello che in qualche modo può ricondurci alla fragilità, ovvero l’ingenuità, la semplicità, lo stupore. Siamo vittime di una sorta di machismo della mente e di burocrazia in giacca e cravatta del pensiero.
Riuscire a stupirsi significa guardare con occhi puliti, vergini. Lo stupore è un qualche cosa che ci riporta all’infanzia, all’entusiasmo per le cose semplici, al piacere della scoperta.
Ti sei mai chiesto perché quando pensi al gusto del Pandoro di quando eri bambino ti sembra che fosse più buono di quello di adesso? Oppure perché ricordavi una stanza più grande o un film più bello? È perché hai perso la capacità dell’essere stupido, di restare a bocca aperta e  occhi spalancati, trattenendo il fiato. Diciamo che ormai la nozione Pandoro, stanza, film, è acquisita, è routine, e pertanto ti annoia. Non sei più capace di gustare, guardare. Sei vecchiotto e stantio.
Ecco perché l’inizio di un nuovo anno viene a coincidere con la somma di tutta una serie di speranze: per lo spazio temporale di qualche ora spezziamo la routine e torniamo a guardare con stupore una porta che si apre su di un mondo che, pur essendo identico, ricomincia da capo, azzera il contatore e offre un’altra ripartenza.
Un anno che inizia è un po’ come una casa nuova; siamo sempre noi, sono sempre le nostre cose che ci portiamo dietro, ma lo stesso atto di ricollocarle, lo stesso svegliarci con una nuova luce che filtra dei vetri, ci fa stupire, almeno per un po’, almeno fino al momento in cui l’entusiasmo sarà svanito e la polvere si sarà depositata.
Sperare che nel nuovo anno tutto sarà migliore: perché no?
La speranza non è che il primo stadio di un processo che è vitale per ogni uomo; presuppone la consapevolezza di un desiderio che può essere o diventare obiettivo, meta, traguardo. Certo, può restare anche un pensiero vuoto, come un bel portavasi senza vaso, ma se a consapevolezza, desiderio e speranza si somma la volontà, beh, quanto meno possiamo dire di essere partiti con la marcia giusta.
Uno dei segreti sta proprio nell’irrazionalità della cosa, nella sua intrinseca stupidità: perché dovrebbe cambiare qualcosa allo scandire di un countdown e in virtù di un tappo di spumante che salta? Ognuno di noi conclude un anno, ovvero un ciclo di vita, portando sul groppone un fardello di delusioni, di mancanze, di paletti fissati e mai raggiunti; è un carico costruito meticolosamente di giorno in giorno fino a diventare odioso.
A ben vedere è più la fine dell’anno che festeggiamo piuttosto che l’inizio del nuovo. Tutta quella serie di gesti scaramantici che la tradizione ci consegna e dei quali spesso abusiamo anche con maleducazione, quali ad esempio liberarci di qualcosa di vecchio (non di rado volano sedie e piatti dalle finestre allo scoccare della mezzanotte!), ricordano i festeggiamenti per la fine di un dittatore. In fondo è un modo per dire che se le cose sono andate male, non è colpa nostra, ma di un anno di “mmerda” (e scusate la doppia).
 
Ben venga la “stupidità” di dire “ok, da domani riparto, ci provo”. Può essere una piccola cosa, come lo smettere di mangiarsi le unghie, di fumare, il riportare alla luce il punto vita, oppure può essere qualcosa di grande, quale il rafforzare o riparare un legame o affrontare in modo costruttivo le difficoltà del lavoro, magari ripartendo da quasi zero come a molti toccherà fare; nulla è stupido, nell’accezione seconda del termine, quella negativa e universalmente recepita.
L’importante è non perdere lo stupore della speranza non appena ci rendiamo conto che il nuovo anno non è un concetto astratto ma ha preso possesso dell’orologio del tempo (ho rubato l’espressione a Edward Payson Powell).
La speranza è il primo passo per l’azione. La speranza è la freccia non che indica il futuro, ma verso il futuro. Non limitarti a seguirla: afferrala e puntala tu stesso verso i tuoi obiettivi.

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Forse li hai persi di vista? Li hai lasciati fra le macerie di quello spazio di tempo che si è appena chiuso alle nostre spalle? Oppure hai paura che siano troppo difficili da raggiungere? Perché allora non iniziare partendo proprio da questo, dall’analisi dei propri desideri, aspettative e dalla consapevolezza delle proprie capacità di raggiungerli, dall’opportunità di lavorare sul proprio io per rafforzarlo come si fa con i bicipiti, i tricipiti e gli addominali grazie a un allenamento mirato. Perché non pensare a un percorso di psicoterapia inteso non come un rimedio, ma come un’opportunità?
Nell’anno appena passato abbiamo imparato a compiere un’infinità di cose vitali attraverso lo spazio virtuale: lavorare, comunicare, amare, persino allenarci fisicamente e fare squadra. E se ci riesce il corpo, che ha comunque oggettivi limiti, pensa a cosa può fare la mente anche tramite un collegamento skype o whatsapp.
Ogni giorno è un inizio, anche senza tappi di spumante che solcano il salotto e mutande rosse; ogni alba che sorge lo è.
Mai schifare la speranza, mai abbandonarla, a meno di esserci costretti:
“lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”, legge Dante sulla soglia dell’inferno.
Lasciare la speranza come se fosse una valigia. Ed è questa l’immagine più terrificante che mente umana possa immaginare, ma che tuttavia è storicamente riuscita a mettere in atto.
No, non è vero che “chi vive sperando muore ca*ando”. Semplicemente vive. Chi non spera, muore, e ca*a pure lui.
Buon anno e buon vento.


 

Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

Ricevo a Monterotondo (RM), Fonte Nuova (RM) e ONLINE