Che nervoso

Di fronte a certe giornate, a certi sguardi, a certi rumori scomposti del vivere quotidiano, non si può fare a meno di lasciarsi sfuggire un’esclamazione istintiva, viscerale, quasi animalesca: “Che nervoso!”.

Non è una parola elegante, non è una diagnosi clinica, non è nemmeno una vera emozione, ma è un’espressione che racconta qualcosa di profondo, qualcosa che si muove sotto la superficie, come una corrente sotterranea che scava invisibilmente e instancabilmente, e che ogni tanto, quando meno ce lo aspettiamo, affiora in superficie come una vena d’acqua scura, o come un’esplosione di rabbia, impazienza, insofferenza.

Nel mio studio di Monterotondo, e anche durante le sedute online, sento spesso le persone raccontare di quanto vedano ovunque, intorno a sé, persone nervose, tese, sull’orlo di qualcosa che non riescono bene a nominare. Alcuni si domandano se siano loro stessi a proiettare quel nervosismo, altri invece si sentono quasi “infettati” da un clima generale di tensione, come se ci fosse nell’aria una specie di elettricità invisibile, un cortocircuito collettivo sempre sul punto di far saltare tutto.

D’altronde viviamo nell’epoca del micro-esaurimento. Non si urla sempre, non si lancia per forza qualcosa contro il muro, ma ci si consuma dentro, giorno dopo giorno, in un logorio silenzioso che viene dalle troppe notifiche, dalle troppe aspettative, dai troppi ruoli da gestire simultaneamente, come se tutti fossimo diventati giocolieri stanchi in un circo che non chiude mai.

La sveglia suona già nervosa, il traffico è isterico, le richieste sul lavoro sono aggressive anche quando sono formulate con un sorriso passivo-aggressivo. E poi ci sono le bollette da pagare, il senso di precarietà che ormai non riguarda più solo i giovani, la sensazione che se ti fermi, anche solo per respirare, qualcuno ti passerà avanti.

Ecco, forse la parola chiave è proprio questa: frenesia. Viviamo in una società frenetica che ha tolto dignità alla lentezza, al silenzio, all’attesa. Tutto deve essere subito, risolto, efficiente. Ma la psiche umana non funziona così. L’interiorità ha i suoi tempi, spesso lenti, a volte ciclici, quasi mai lineari. Ma il nostro mondo ha perso la pazienza, e così ha perso anche la capacità di ascoltare.

Il nervosismo ci parla

Quando le persone mi raccontano delle loro giornate, dei loro pensieri che non si fermano mai, delle discussioni inutili con il partner o con i figli, delle parole sbattute in faccia come porte che si chiudono con rabbia, sento sempre lo stesso sottofondo: un senso di compressione. Come se tutti noi vivessimo dentro contenitori troppo piccoli per le nostre emozioni. Come se nessuno ci avesse mai insegnato davvero a dare un nome a ciò che proviamo, e allora tutto si ingolfa, si accumula, e poi esplode nel modo più scomposto e meno utile.

Il nervosismo è una specie di febbre emotiva: segnala che qualcosa dentro di noi sta lottando per adattarsi a condizioni che non sono più sostenibili. Non è un “difetto del carattere”, non è una debolezza, ma un segnale. Un grido che dice: “Ho bisogno di qualcosa che non mi sto dando, che non sto ricevendo”.

Siamo tutti così nervosi, perché viviamo in una società che ha trasformato l’essere umano in una prestazione, perché l’imperativo costante è “funziona!”, “produci!”, “sii felice!”, e guai a mostrarti fragile, a dire che sei stanco, che sei confuso, che non riesci a stare dietro a tutto. Perché il dolore è diventato quasi un tabù, qualcosa da nascondere dietro a frasi di circostanza, o da zittire con pillole, o peggio ancora da negare con l’autoinganno.

Tuttavia il nervosismo ci parla e ci dice che non stiamo respirando abbastanza, né con i polmoni né con il cuore. Ci ricorda che l’essere umano non è fatto per vivere costantemente in modalità attacco-fuga, quella stessa modalità che il nostro cervello attiva di fronte a un pericolo. Ma il problema è che oggi i “pericoli” non sono più le tigri nella foresta, ma email senza risposta, giudizi non detti, confronti silenziosi sui social, sensi di colpa per non essere all’altezza di standard impossibili.

“La mente è il suo proprio luogo, e in sé può fare un inferno del paradiso o un paradiso dell’inferno” scriveva John Milton nel Paradiso Perduto. Ed oggi, molte menti sono diventate piccoli inferni quotidiani, pieni di pensieri che si accavallano come traffico nell’ora di punta. E se non impariamo a osservare questi pensieri, a conoscerli, a dare loro voce, continueranno a spingerci verso il nervosismo cronico, verso quella forma di disagio sordo che non urla ma logora.

Allora cosa possiamo fare?

Per prima cosa, ascoltarci. Dare cittadinanza ai nostri stati d’animo, anche quelli scomodi. Dirsi con onestà: “Sì, oggi sono nervoso. E va bene così. Ma perché? Cosa c’è sotto?”.

Molto spesso, sotto il nervosismo c’è paura. Paura di non essere abbastanza. Di essere lasciati soli. Di non avere controllo. Di fallire. Di essere visti per come siamo davvero. Altre volte, c’è rabbia. Un bisogno che non è stato accolto. Un limite che è stato superato. Una parola che non è stata detta. E poi c’è la frustrazione, che è forse la vera epidemia emotiva dei nostri tempi.

Ecco allora il secondo passo: rallentare. Anche solo per cinque minuti al giorno. Spegni il telefono. Respira. Guarda fuori dalla finestra. Scrivi quello che senti. Non fare nulla. Sì, proprio nulla. È un atto radicale, oggi. È una forma di disobbedienza dolce contro un mondo che ci vuole sempre attivi, sempre performanti, sempre “sul pezzo”.

E infine: chiedere aiuto. Non è un segno di debolezza, ma di consapevolezza. Parlare con qualcuno può fare da valvola di sfogo, ma anche da specchio. Perché il nervosismo, come tutte le emozioni, ha bisogno di essere visto per potersi trasformare. Non si tratta di eliminarlo, ma di accoglierlo come un messaggero, di capire cosa ci sta dicendo, e di rispondere con presenza, con gentilezza, con cura.

Perché alla fine, se ci pensiamo bene, quel “che nervoso!” non è altro che un modo per dire: “Non ce la faccio più a stare dentro questa forma. Ho bisogno di espandermi. Di respirare. Di vivere con più verità”.

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Federico Piccirilli

Psicologo, Psicoterapeuta

Terapie Brevi

Terapia a Seduta Singola

Ricevo a Monterotondo (RM) e ONLINE